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“Il re non digerisce la mollica del pane” e così a Torino nacquero… i grissini

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Grissini Torino

Qualche giorno fa mi trovavo per pranzo in un ristorante nel Monferrato e mi è capitato di mangiare dei grissini prima che arrivasse l’antipasto. “Che c’è di strano” direte voi… e avete ragione, nulla. Ma mi ha sono soffermato su quanto scritto nell’etichetta, “prodotti a Torino”… stessa cosa che avevo letto in altri ristoranti, però il fatto di non essere in città mi ha incuriosito, mi sono informato e ora vi racconto il perché Torino è la città dei grissini. Vi anticipo che la storia è molto curiosa e – a meno che non la conosciate già – rimarrete stupiti nel leggere perché sono nati i grissini.

Il grissino, il cui nome deriva dalla parola dialettale ghërsa (tipo di pane di forma allungata), ha una composizione semplice, fatta da farina 00, acqua, lievito e sale. La sua forma lunga e affusolata lo rende molto leggero e digeribile, soprattutto data la mancanza di mollica al suo interno che ne garantisce una lunga conservazione. Ed è proprio una “questione di mollica” il fulcro della curiosa storia che sto per narrarvi.

Siamo nel 1679 quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico reale, inventò il grissino, non essendo digeribile la mollica del pane dal futuro re Vittorio Amedeo II, il quale aveva una salute cagionevole. E non di meno ne divenne un grande estimatore.

Restando in ambiente nobile, si pensi anche che il re Carlo Felice ne era così ghiotto tanto da sgranocchiarne sul palco del Teatro Regio per passare il tempo! E persino in Francia Napoleone Bonaparte aveva una grande passione per i grissini, tanto da creare una corriera dedicata al loro trasporto, e decise di chiamarli simpaticamente les petits bâtons de Turin (i bastoncini di Torino).

Per ritornare al modo in cui sono fatti e alla composizione dei grissini torinesi, bisogna risalire al 1600, dicendo che non vi era alle spalle una procedura così facile. Occorreva infatti l’impiego di quattro fornai: uno per stirare la pasta, una per tagliarla, più due figure dette “colui che introduce” e “colui che toglie”. Il primo metteva l’impasto sopra una paletta stretta e lunga e la introduceva nel forno tipico piemontese (riscaldato con legno di pioppo), e il secondo rimuoveva i grissini spezzandoli poi in due.

Tradizionalmente possiamo dire che esistono due tipologie di grissini torinesi: il robatà – che in piemontese significa “caduto” o “rotolato” – è dato da una lavorazione particolare che prevede appunto un arrotolamento della pasta data da una pressione manuale, e una caduta delicata del grissino sul piano di lavoro. L’altra tipologia è il grissino stirato, di origini più recenti, che viene, invece che arrotolato, stirato appunto, ottenendone una maggiore friabilità.

Nel tempo sono state introdotte diverse varianti al grissino tradizionale, ad esempio aggiungendo nella ricetta lo strutto, oppure aromatizzate immettendo ingredienti come le olive, il sesamo, le cipolle, i semi di finocchio, e chi più ne ha più ne metta. Per il palato dei più golosi ve ne sono anche versioni dolci, come quelli con l’aggiunta di pezzetti di cioccolato.

Un’ultima cosa: i grissini torinesi sono stati inseriti nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Un notevole riconoscimento più che meritato per questi piccoli bastoncini nobili.

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